di Daniele Trabucco
“L’Europa lo vuole”. Sembra il grido di una nuova crociata al fine di legittimare gli interventi più disparati nell’ambito dell’ordinamento interno. E’ notizia, infatti, di alcuni giorni fa che la Banca centrale europea abbia indicato all’Italia, in vista di una maggiore riduzione della spesa pubblica, un accorpamento delle 107 Province esistenti che, è bene ricordarlo, rappresentano l’1,5% della spesa pubblica complessiva del paese.
Al di là del fatto che non sussiste alcuna competenza dell’Unione Europea e tantomeno della Banca centrale ad intervenire, anche solo a livello di proposta, in un ambito, quello degli enti locali territoriali e delle loro circoscrizioni, sul quale solo gli Stati membri sono legittimati a pronunciarsi, la Costituzione italiana, in un’ottica non solo di valorizzazione ma anche di promozione delle autonomie (articolo 5), affida unicamente ai Comuni interessati, e non allo Stato, l’impulso per avviare un procedimento volto al mutamento/accorpamento delle circoscrizioni provinciali (articolo 133, comma 1, Cost.).
Questo significa che, a Costituzione vigente, in assenza dell’iniziativa comunale non è consentito alcun intervento autoritativo da parte dell’apparato statale, al quale spetta solo la valutazione circa l’idoneità e l’adeguatezza dell’ambito territoriale destinato a costituire la base della nuova Provincia o dell’accorpamento. Pertanto, le esigenze di razionalizzazione territoriale, coniugate alla necessità di funzionalità amministrativa, richiedono sempre una previa valutazione ad opera dei Comuni, verificatasi la quale è poi possibile l’intervento del legislatore ordinario.
In caso contrario, verrebbero ridimensionate, se non addirittura cancellate, quelle garanzie procedimentali (iniziativa comunale, parere della Regione etcc.) che la Carta costituzionale pone a tutela ed a difesa non tanto dell’istituzione provinciale in sè, ma delle comunità stanziate nel suo territorio delle quali la Provincia si configura come ente esponenziale. Questo, beninteso, non significa non intervenire in tema di autonomie locali territoriali, ma che la priorità, più che nell’accorpamento delle Province, è ravvisabile, come ha ben sottolineato il prof. Gian Candido De Martin della Luiss di Roma, in un organico processo attuativo della riforma del Titolo V della Costituzione, incentrato su tre assi principali.
Il primo è la valorizzazione dell’autonomia come responsabilità. Comuni e Province devono essere considerati come enti di governo delle rispettive comunità, titolari di una sfera di autonomia che non è loro concessa, ma che si configura quale elemento significativo di una condizione istituzionale che la Carta riconosce perché intrinseca alla loro ragione d’essere, ferma restando ovviamente l’unità e l’indivisibilità del sistema. Il secondo è il riconoscimento di centralità e pari dignità dei soggetti costitutivi della Repubblica ai sensi dell’art. 114 Cost. senza alcuna gerarchia, ma semmai qualificando i ruoli istituzionali dei diversi soggetti del sistema.
Da qui, allora, la necessità che il ruolo delle Regione si limiti al carattere legislativo e programmatorio, mentre l’amministrazione e la gestione dei servizi pubblici deve essere incentrata sulle amministrazioni comunali e provinciali. Il terzo ed ultimo è la chiarificazione delle funzioni dei diversi soggetti del sistema, che sono poi l’aspetto che comporta la maggiore spesa ed i maggiori costi, evitando sovrapposizione di interventi sulla medesima materia. In questo senso, il disegno di legge n. 2259, in discussione al Senato della Repubblica (la c.d. nuova Carta delle autonomie), può rappresentare un buon punto di partenza.
Daniele Trabucco
Università degli Studi di Padova
daniele.trabucco@unipd.it