Il silenzio, a saperlo ascoltare, racconta e svela molte cose. Dopo il voto per il referendum dell’11 gennaio 2010 le comunità bellunesi hanno avuto la ribalta per due o tre giorni. Poi sono sepolte nel sonno profondo. In provincia di Trento s’è aperta una discussione sulla stampa, nelle Istituzioni, tra i cittadini, nella quale si parla di noi e della nostra iniziativa. La si attacca, la si difende. Si prende posizione. Nelle nostre comunità no.
Nessuno pretende che ci si occupi del referendum ogni giorno. Non è questo il problema. Non s’è capito che l’iniziativa referendaria è un progetto per il futuro delle comunità provinciali. Cosa e come fare per impedire il degrado e l’arretramento economico e sociale che ci colpisce? Il referendum per ottenere autonomia amministrativa e legislativa, non è la soluzione dei nostri problemi ma lo strumento per trovarla e praticarla. Se le nostre comunità non affrontano questo nodo, che ostacola il consolidamento del benessere provinciale, non riusciremo a risolvere alcun problema. E’ evidente che, in assenza d’iniziativa e di coesione dei montanari bellunesi, non si otterrà nulla. Non c’è consapevolezza che una sconfitta al referendum, farà sparire qualsiasi possibilità di costruire processi autonomi di consolidamento comunitario.
Senza un progetto condiviso di autonomia, nemmeno la vittoria al referendum ci salverà. Quando la Corte di Cassazione dichiarerà ammissibile il referendum e sarà stabilita la data, le Istituzioni, le Associazioni, i partiti, probabilmente, prenderanno qualche iniziativa. Ma il nostro non è un problema contingente e non sarà risolto con un colpo di mano o di fortuna o da una vittoria referendaria. Non c’è consapevolezza che il problema non è solo nostro ma di tutto l’arco alpino.
Il 53% della superficie italiana è montagna, dove vive il 18% della popolazione. Solo il nostro sciagurato ed endemico provincialismo ci porta a dimenticare che la montagna è il 100% del territorio di Val d’Aosta e Trentino e il 42% del Friuli, tutte a statuto speciale ma con politiche di ben differente efficacia in montagna. Dimentichiamo anche che è il 43% del Piemonte, il 40% della Lombardia, il 65% della Liguria e dell’Abruzzo. In Veneto è il 29% come in Emilia Romagna. Tutto questo territorio o è abbandonato oppure è colonia della cultura e dell’economia urbana. La pianura padana è il 41% del Nord ma detta ed impone le sue necessità alla montagna. Risorse che, in altri paesi alpini, sono il fondamento dei processi di produzione del valore economico delle comunità locali, nel nostro paese sono considerati un onere e una fonte di debito. Invece in questa parte della nazione si produce il 17% del prodotto interno lordo.
Inoltre, in questo territorio ci sono risorse preziosissime che non siamo più capaci di vedere. Acqua, boschi, pascoli per filiere agroalimentari di qualità, climi temperati, ambienti di formidabile valore turistico e residenziale, esposizione favorevole all’energia fotovoltaica, idroelettrica ed eolica, aria pulita, grandi spazi verticali ed obliqui, culture secolari, gastronomie prelibate, una biodiversità floristica e faunistica inesistente in pianura. Luoghi in cui si vive bene, nei quali il tessuto delle relazioni sociali solidali, benché logoro, è ancora capace di favorire il dono, nella nebbia ideologica liberista nella quale sembra che tutto debba avere un prezzo, compresi gli esseri umani.
Non ci siamo accorti che la globalizzazione, l’apertura ai mercati internazionali (metà della nostra ricchezza deriva dalle esportazioni delle nostre imprese manifatturiere), ha eliminato la protezione delle appartenenze nazionali e regionali, così come sono state disegnate dalla storia del secolo scorso. Oggi per competere, per restare capaci di vivere e sopravvivere, è necessario progettare e costruire comunità locali coese, organizzate, dinamiche e proiettate al futuro, con basi solide, con relazioni umane ed economiche efficienti e solidali, capaci di dialogare con il mondo intero. Capaci di rappresentare e difendere i propri interessi perché hanno stima e fiducia in sé stesse, hanno un progetto e una missione comune da perseguire.
Si litiga sull’opportunità o meno di celebrare l’unità Italiana mentre i vincoli (economici, sociali, affettivi, ecc) nel paese reale si dissolvono. Il referendum come strumento di consolidamento di identità dinamiche delle comunità bellunesi non è stato proposto nel nostro minuscolo e ininfluente interesse, con il desiderio di rincantucciarci nella nostra piccola patria ritagliata su misura. E’ invece un atto d’orgoglio, una dichiarazione di appartenenza, un desiderio di salvezza, una proposta a tutti i montanari delle Alpi.
Per questo gli altri ne parlano e si parlano. E noi ce ne stiamo, silenti, inerti e intenti a litigare su tutto, incapaci di trasformare quest’occasione nel laboratorio indispensabile per produrre un progetto d’autonomia credibile e possibile. Non abbiamo certo perso la speranza, ma il silenzio che è calato sulla proposta referendaria non ci aiuterà a risolvere alcuno dei problemi che abbiamo.