Riproponiamo qui il testo dell’intervista che Diego Cason ha rilasciato a Zenone Sovilla dell’Adige, apparsa sul numero del 25 agosto 2011.
«Per la nostra provincia ormai è questione di vita o di morte; ma sono convinto che anche Trento e Bolzano sarebbero rafforzate significativamente in una regione che, aggregando anche Belluno, vedrebbe riunite le tre entità territoriali delle Dolomiti. E tutto a costo zero, perché noi non chiediamo più soldi ma di poter gestire direttamente quanto ci viene destinato oggi da Stato e Regione».
Diego Cason, sociologo, è una delle anime del movimento «Belluno autonoma, Dolomiti regione», che in un paio di mesi ha raccolto ventimila firme per un referendum, in sintonia con l’articolo 132 della Costituzione, che chieda il trasferimento della provincia dal Veneto al confinante Trentino Alto Adige. Sulla scorta del fermento popolare, è arrivato il sostegno trasversale delle istituzioni rappresentative, fino al voto quasi unanime (solo la Lega si è spaccata) in consiglio provinciale per il via libera all’iter in Cassazione.
La Corte, però, a fine marzo, ha negato l’ammissibilità sostanzialmente perché il questito tocca «il particolarissimo status di regione binaria» del Trentino Alto Adige. «La Cassazione – osservaCason – in questo modo contraddice la Costituzione, che assicura ai territori il diritto di autodeterminarsi; inoltre, negando il referendum, ha invaso il campo del Parlamento».
Ora la Provincia di Belluno inoltrerà ricorso straordinario al capo dello Stato, preludio di un’impugnazione alla Corte di giustizia europea. «E in settembre sarà presentata una legge costituzionale, quale punto di partenza di un percorso e di un dialogo a vasto raggio da costruire insieme ai nostri vicini di Trento e di Bolzano il cui consenso, ovviamente, è condizione essenziale. Non pensiamo certo di poter andare a decidere in casa d’altri…».
Finora quali sono state le risposte? «A Bolzano stiamo incontrando parecchie difficoltà di comprensione reciproca, non si coglie l’iniziativa come un’opportunità e temo che questa insensibilità nei riguardi delle aree alpine limitrofe possa rivelarsi, prima o poi, un boomerang per il Sudtirolo. In Trentino, al contrario, abbiamo trovato interesse e disponibilità da parte di una serie di interlocutori, istituzionali e non, che ringraziamo perché hanno compreso il senso dei nostri sforzi: l’autogoverno in un contesto di collaborazione fra territori che condividono le stesse montagne. Sono previsti anche incontri fra sindaci trentini e bellunesi e il nostro movimento presto darà vita a una serie di momenti informativi dalle vostre parti».
Che cosa andrete a spiegare? «Ascolteremo gli altri e illustreremo le nostre ragioni; ma insisteremo anche sul concetto che l’unità dell’area dolomitica sarà sempre più, per tutti, una fonte di energia davanti ai rapidi processi globali che aumentano la pressione e i rischi socioeconomici per territori complessi quali sono Trento, Belluno e Bolzano. Vogliamo anche chiarire che non intendiamo assolutamente interferire, contestare o levare nulla alle altre due province, cui riconosciamo pienamente il diritto all’autonomia speciale. Non pretendiamo né uno statuto identico né un analogo trattamento economico. Fatte le varie ponderazioni, nel bilancio rimane un gap di circa 600 milioni di euro l’anno, ma a noi non serve colmarlo, quel che conta davvero è poter decidere sui trasferimenti di quel miliardo e 200 milioni di euro di cui sono già titolari i bellunesi (il cui reddito pro capite medio, peraltro, non si discosta dai livelli delle due province vicine)».
Insomma, né corsa ai privilegi né retromarcia nostalgica da piccola patria? «Il nostro è un discorso pragmatico per affrontare lo stato reale delle cose e le sfide del presente, in una terra che amiamo e vogliamo difendere. Il movimento referendario non è reazionario: al contrario, si pone il problema dell’innovazione. Ci servono, però, strumenti istituzionali coerenti con le esigenze di un’area di montagna. Belluno sta dando ultimamente segni di risveglio, dopo un lungo periodo di subalternità che in queste comunità ha indebolito la percezione di sé e la capacità di definire i propri interessi strategici. Per un secolo da qui se ne sono andati oltre cinquemila emigranti ogni anno, ci sono molti più bellunesi in giro per il mondo che qui. Da un po’ di anni, c’è un’inversione di tendenza e cresce anche la consapevolezza sulla necessità di un cambiamento che dovrà passare anche per una riforma istituzionale».
Quali sono i limiti dell’attuale architettura? «Molti. Se Trento ha piena potestà di indirizzare secondo le reali esigenze del territorio i suoi cinque miliardi e mezzo in bilancio, da noi non è affatto così: quei fondi pubblici vengono usati sulla base di leggi scritte altrove, dallo Stato e dalla Regione Veneto, secondo criteri che rispondono ai bisogni e a logiche tipicamente di pianura. È una stortura devastante che si replica nella gran parte delle zone montane d’Italia, che sono il 74% della superficie nazionale».
Facciamo un esempio? «Quando Venezia vara un piano del commercio e prevede cinque o sei nuovi supermercati, non valuta che la nascita di una grande attività di valle condanna a morte i negozi di vicinato in tutte le frazioni e nei paesi in quota. Così come è demenziale, in montagna, il criterio che finanzia l’agricoltura in base alla produttività e all’estensione dei fondi. Tant’è che nel Bellunese, dove il fondo medio è di appena due ettari e mezzo, gli attivi nel primario sono precipitati all’1,2%. Succede pure che i terreni vengono venduti, anche a imprese trentine o trevigiane, a un euro al metro quadrato; poi i nuovi proprietari piantano un frutteto e l’appezzamento schizza a 24 euro al metro, un prezzo che poi sarà inaccessibile per i contadini bellunesi».
Mentre voi chiedete l’autonomia, l’altro giorno il governo voleva cancellare la provincia di Belluno, con le altre sotto i 300 mila abitanti, poi salvata dal criterio dell’estensione territoriale avendo oltre tremila chilometri quadrati. Si era già ipotizzato anche un innaturale accorpamento con la lontana Treviso. Che ne dite? «Solo un governo disperato può arrivare a calpestare i diritti costituzionali dei cittadini disponendo modificazioni territoriali degli enti. Quanto ai criteri adottati nella fattispecie, sono semplicemente folli. Se si volessero davvero risparmiare soldi senza fare demagogia di bassa lega, si potrebbe semmai guardare alle sovrapposizioni generate, per esempio a Milano, dalla compresenza di città metropolitane, comuni, province e comunità montane. A Belluno tutta questa faccenda allucinante ha solo accresciuto delusione, rabbia e voglia di lottare. Lo slogan che circola ora per le nostre valli è un po’ rozzo ma rende l’idea: “Via dal Veneto, mai con Treviso”».
A proposito, a Venezia si discute da tempo del nuovo statuto che dovrebbe riconoscere la specificità di Belluno… «In realtà, il Veneto non ha nessun interesse a riempire quelle parole con i fatti: i bellunesi sono 213 mila su cinque milioni e mezzo di abitanti e riconoscerne l’autonomia significherebbe innestare un effetto a catena. Non dimentichiamo che di questi tempi tutti hanno i loro problemi, mica solo noi: anche la pianura soffre. Sta di fatto che la storia della Regione ci mostra un rifiuto quasi totale a trasferire competenze a Belluno». Anche gli operatori economici si lamentano. «Le imprese trentine e altoatesine godono di sostegni pubblici del tutto condivisibili, ma che visti da oltre confine si configurano come una concorrenza non basata sulla reciproca lealtà. Un esempio: se io voglio costruire un albergo in provincia di Belluno, devo possedere liquidità oppure accendere mutui a tassi di mercato; se lo faccio sull’altro versante di un passo dolomitico ottengo dalla Provincia autonoma un significativo finanziamento a fondo perduto, un’altra fetta a tasso agevolato e infine trovo nel sistema creditizio locale, per la cifra rimanente, condizioni migliori di quanto offrono le mie banche. Non è un caso se nel 1961 Belluno contava 500 alberghi e Bolzano 1200, adesso noi ne registriamo 400 e l’Alto Adige 4200. E senza espandersi nel turismo e nei servizi, qui si rischia di pagare un prezzo altissimo nei processi di globalizzazione, perché il settore manufatturiero – quello oggi più minacciato – da noi rappresenta il 60% dell’occupazione. Perciò è urgente dotarsi di nuovi strumenti amministrativi e governare un territorio che necessita di profonde trasformazioni nel nuovo quadro internazionale. È in quest’ottica che va inserito il dialogo con i nostri vicini di casa».
E se alla fine il referendum provinciale non fosse concesso? «Un’altra opzione sarebbero referendum comunali a catena (oltre ai tre comuni ladini storici e ai germanofoni di Sappada, anche Lamon e Sovramonte hanno già votato per lasciare il Veneto, ndr). Naturalmente speriamo di non dover arrivare a queste scelte estreme, ma ormai siamo arrivati à la guerre comme à la guerre: è in gioco la sopravvivenza dei territori, ci sono interi paesi che stanno scomparendo e noi non intendiamo morire senza farci sentire».