Referendum 2010Referendum - BARD Belluno Autonoma Regione Dolomiti

In questa sezione abbiamo raccolto e messo insieme gli articoli pubblicati nel corso degli anni per spiegare e spronare le menti sul tema Referendum per l’autonomia della Provincia di Belluno.

Le ragioni del referendum

Quali sono i motivi per cui si chiede alla Provincia di sottoporre a Referendum la proposta di aggregare l’intera Provincia di Belluno alla Regione Trentino-Alto Adige, come previsto dall’art. 132 della Costituzione

La provincia di Belluno è nata nel 1866 ed ha assunto l’attuale confinazione nel 1923 con l’acquisizione dei comuni di Cortina, Livinallongo-Fodom e Colle Santa Lucia. Una provincia giovane, sopravvissuta come entità amministrativa solo per effetto della sua importanza strategica sull’asse di Alemagna, sempre oggetto di contesa ma non così appetibile da giustificare una annessione di fatto, con tutti i costi che ciò comportava. Questo entrare ed uscire da protezioni potenti e pericolose non ha prodotto una comunità coesa, consapevole di un destino comune e capace di produrre un progetto condiviso. Ha bensì prodotto comunità di valle con grande spirito di autosufficienza e autoreferenzialità. Oggi si possono contare almeno nove comunità che si ritengono cosa in parte diversa da quel che comunemente s’intende per bellunese. I Feltrini con le enclave degli altipiani, i Fodomi ladini e alto agordini, gli Gnas e gli Zoldani (quasi estinti), i Cadorini, i Comeliani, gli Ampezzani e i Pagòt Cimbri. Quei che resta fora le i Belumat. C’è sempre stata, irrisolta, dal 1500 in poi, una frattura tra la città di Belluno, nobiliare e possidente, che ha abbandonato la sua tradizione produttiva per diventare una molle amministratrice, e il “contado” produttivo e autosufficiente (rispetto a Belluno). Feltre è sempre stata commerciale e produttiva, il Cadore ha mantenuto relazioni autonome con Venezia, con tanto di privilegi e autentica indipendenza statutaria. Ampezzo, Comelico-Sappada e Fodom sono sempre stati con la testa e il cuore rivolti a nord, parte dei Feltrini hanno più dimestichezza col Cismon che con la Piave. Cosa ha tenuto insieme i Bellunesi finora? Le guerre e la sfiga. Le guerre hanno mantenuto la provincia unita perché diventò un fortino difensivo, poco efficace ma vissuto come baluardo dei confini.

Oggi a questo scopo non serve ed anche l’importanza strategica della strada d’Alemagna non esiste più. Le forze esterne non ci tengono più insieme per forza. La sfiga ha avuto diverse facce. Prima di tutto la miseria. Il suolo bellunese non è fertile e da sempre la produzione agricola è stata insufficiente a sfamare i bellunesi. Da ciò deriva un secolo intero d’emigrazione forzata al ritmo di 5 mila emigranti l’anno. Un’emorragia delle migliori energie che ha sfibrato le comunità. Si considerino poi le occupazioni straniere, l’instabilità geomorfologica, con frane, inondazioni e crimini coloniali come il Vajont. Una comunità non si consolida nelle disgrazie ma con i successi, che sono arrivati solo negli ultimi trenta anni. Pagando l’elevato prezzo di dover praticare un modello urbano completamente estraneo alla cultura montana. Siamo divenuti ricchi rinunciando a quello che siamo. Siamo diventati molto ricchi, più della pianura, più della padania, più dei veneziani che ci hanno sempre considerato meno dell’”om selvarech”.

Abbiamo accumulato una ricchezza che non è divenuta capitale sociale comune, ma somma di patrimoni individuali. Che sappiamo usare sono nell’ottica dell’arricchimento individuale e non nell’interesse comune. In questa fase storica eventi esterni (la globalizzazione) ed interni (il campanilismo e la debolezza comunitaria) producono una forza centrifuga che, se non governata, porterà alla dissoluzione della provincia come ente (poco male) e come insieme di comunità autodeterminanti (molto male).

Questo accade per una serie di eventi demografici che stanno eliminando i bellunesi montanari nelle proprie basi biologiche antropologiche. Ogni anno muoiono 800 bellunesi più di quelli che nascono. Il saldo naturale (nati meno morti) è negativo dal 1990. Non ci sono più le forze per ricambiare i 110 mila attivi (ne mancheranno circa 13-15 mila entro il 2020 (doman l’altro) e senza gente che lavora non si potrà mantenere l’attuale PIL (circa 5.900 milioni di euro nel 2008, con circa 30 mila € pro capite, con un patrimonio di circa 451 mila € per famiglia), né mantenere tutte le persone inattive che diventeranno di più degli attivi. Questa evoluzione demografica ha fatto crescere l’indice di vecchiaia a 182 e gli anziani in provincia sono 1/3 dei residenti. In alcuni paesi ci sono quattro anziani per ogni ragazzo con meno di 15 anni.

Alcune comunità sono già sparite come tali e i paesi sono luoghi in cui non si vive, ma si sopravvive, in attesa che tutti gli abitanti delle montagne scendano a valle e le loro proprietà diventino luoghi di speculazione economica senza freno. A Selva di Cadore (ad esempio) ci sono 887 abitazioni non occupate su 1.115, il 78,7% degli immobili. Certamente qualcuno, con tutte queste case, avrà fatto un bel business ma come pensate che si viva in un paese fantasma che è vivo d’estate (2 mesi) e d’inverno (1 mese) e per il resto dell’anno è una “ghost city”?

La provincia di Belluno ha il più basso indice di nuzialità di fecondità e natalità e il più elevato indice di divorziabilità del Veneto. Le basi della riproduzione della specie sono in discussione. Anche le basi umane della produzione sono in discussione perché, per ogni quattro attivi che lasciano il lavoro, ne abbiamo solo uno che li sostituisce.

Nessuno si preoccupa di questo, continuiamo a perdere residenti in quota e, anche se nei comuni della Valbelluna molti fanno ricchi affari (soprattutto immobiliari), la provincia si svuota e diventa con estrema facilità terra di conquista. In Valbelluna si vendono terreni agricoli, a imprese trevisane e trentine, per un euro a metro quadrato, una pipa di tabacco. I residenti vendono alberghi e attività commerciali a società straniere (i 2/3 dei supermercati bellunesi sono di proprietà di non bellunesi). Il 70% delle abitazioni non occupate (circa 30 mila) sono in proprietà di non bellunesi. Si stanno svendendo le basi della produzione e quindi il reale potere decisionale sul nostro futuro, a prezzi di saldo. Per questi motivi, e per altri altrettanto importanti, molte comunità bellunesi hanno cercato (secondo il loro stile) di trovare una soluzione per sé. A cominciare da Lamon per giungere a Sappada ognuno cerca di svignarsela e risolvere per proprio conto i problemi illustrati, che derivano un gran misura da eventi esterni e al di fuori del nostro controllo ma, in egual misura, dalla cecità della Regione Veneto, incapace di produrre politiche agricole, commerciali, industriali, scolastiche e turistiche su misura della montagna. Le élites dirigenti del Veneto non hanno alcun interesse per la montagna o, meglio, non ne hanno alcuno per i montanari. In vacanza in Dolomiti ci verranno comunque, che gli frega a loro se l’albergo non è più di proprietà di un imprenditore locale? Meglio se è della Ciga Hotels di cui loro sono gli azionisti. I referendum comunali, che hanno posto il problema dell’insostenibilità della situazione nella montagna bellunese (grande merito) producono, però, tre effetti negativi:

dividono a metà la comunità locale e questa divisione è un’ulteriore mazzata alla coesione necessaria per affrontare i problemi che abbiamo di fronte (solo a Sappada il referendum ha raggiunto il 71% negli altri paesi hanno raggiunto il 50-60%);
l’eventuale successo dei comuni referendari lascia tutti gli altri indeboliti e più esposti alla dissoluzione;
i comuni che trasmigrano entreranno in comunità più efficienti a produrre politiche per la montagna, ma già fortemente strutturate, entro le quali essi saranno sempre (e per sempre) una minoranza (“i ultimi rivadi”) e, perciò, la loro autonomia invece che crescere diminuirà.

Per tutti questi motivi espressi in sintesi estrema, ma sostenuti da solidissimi dati raccolti con estensione e profondità, riteniamo che una possibile soluzione a questa difficile congiuntura sociale ed economica sia di sottoporre a referendum la proposta di aggregare l’intera provincia di Belluno alla regione Trentino Alto Adige, come previsto dall’art. 132 della Costituzione Italiana, per i seguenti motivi:

E’ l’unica possibilità per l’intera provincia di evitare la dissoluzione come entità autonoma.
E’ l’unica proposta in grado di dare sufficiente forza alle comunità all’interno di una nuova collocazione amministrativa.
E’ la migliore tra le ipotesi di trasferimento amministrativo, poiché la regione Trentino non esiste come ente amministrativo accentrante, essa è un mero contenitore di due province autonome alle quali non viene “annessa” Belluno, che diventerebbe, invece, la terza provincia autonoma, necessariamente dotata di potere legislativo poiché la regione Trentino Alto Adige questo potere l’ha delegato alle province.
Questa soluzione inserirebbe la provincia in un contesto di due legislazioni (di Trento e Bolzano) attente ai problemi della montagna e capaci di proporre strumenti legislativi e regolamentari differenti, con una notevole esperienza accumulata, alla quale potremmo fare riferimento per acquisire competenze che altrimenti non avremmo a disposizione.
Le due province autonome si sono già dotate di Comunità comprensoriali (otto a Bolzano e undici a Trento) ed hanno già compreso come, nelle realtà montane, gli Enti amministrativi centrali sono strumenti per le diverse Comunità di valle, alle quali delegare molte delle competenze amministrative provinciali. Così l’adesione a questo modello riconoscerebbe non solo una teorica specificità della provincia ma una reale autonomia delle Comunità di valle, mantenendo una coesione amministrativa indispensabile per poter produrre politiche territoriali adeguate.
Il modello dei comprensori dotate d’ampie deleghe è ciò che ci serve per superare l’impotenza di amministrazioni comunali troppo piccole e quindi incapaci di produrre processi di reale autogoverno.

Certamente questa soluzione amministrativa-politica non risolverà tutti i problemi delle nostre Comunità, ma è l’unica strada possibile, oggi, per dare una risposta seria, praticabile e giuridicamente accettabile, alla dissoluzione sociale ed economica dei bellunesi. E’ una risposta necessaria sulla quale dovrebbero convergere tutte le forze politiche bellunesi perché non ci saranno altre possibilità, tra dieci anni sarà irrimediabilmente troppo tardi.

Questa nostra proposta è anche un’assunzione di responsabilità politica e civile. In assenza di percorsi legali, leciti e pacifici per dare soluzione a problemi di questa portata rimangono solo due possibilità: la resa incondizionata e la ribellione violenta. Queste due strade portano alla sconfitta e alla perdita della dignità delle comunità umane e dei loro componenti, seminano ostilità, rancori e divisioni, rassegnazione e fatalistica accettazione degli eventi. In ogni caso, la ricerca dell’adesione del maggior numero di partiti e movimenti è un dovere da assolvere, perché un referendum di questa portata affermerà il valore della sua decisione solo se raccoglierà almeno il 70-75% delle adesioni da parte degli aventi diritto al voto. I promotori del referendum sono pochi, ma l’errore più grande che possiamo commettere è ragionare da minoranza che vuole ottenere il risultato con colpi di mano o trucchi con maggioranze risicate.

Se i bellunesi (comunità e individui) non comprendono l’importanza storica di questo percorso, da fare adesso, in questo momento, pena la dissoluzione, non ci potremo fare proprio nulla.

E’ necessario andare diretti e spavaldi per questa strada senza timori e senza sudditanze, chiamando tutti al dovere di sostenere questo referendum che, in ogni caso, è una manifestazione della nostra vitalità e capacità di proporre soluzioni e, in qualsiasi modo si concluda, ci lascerà la convinzione di aver fatto appieno il nostro dovere di cittadini degni di questo nome.

Diego Cason
Sociologo

Scarica la versione pdf del Manifesto referendario di Belluno Autonoma Dolomiti Regione

Perché il referendum si basa sull’art. 132 della Costituzione italiana?

E’ bene chiarire la relazione fra il referendum da noi proposto e l’articolo 132 della Costituzione.

Partiamo col riprendere dal nostro Manifesto Referendario:

[…] Per tutti questi motivi espressi in sintesi estrema, ma sostenuti da solidissimi dati raccolti con estensione e profondità, riteniamo che una possibile soluzione a questa difficile congiuntura sociale ed economica sia di sottoporre a referendum la proposta di aggregare l’intera provincia di Belluno alla regione Trentino Alto Adige, come previsto dall’art. 132 della Costituzione Italiana […]

Ecco che cosa prevede l’art. 132 della Costituzione:

Art. 132

Si può, con legge costituzionale, sentiti i Consigli regionali, disporre la fusione di Regioni esistenti o la creazione di nuove Regioni con un minimo di un milione di abitanti, quando ne facciano richiesta tanti Consigli comunali che rappresentino almeno un terzo delle popolazioni interessate, e la proposta sia approvata con referendum dalla maggioranza delle popolazioni stesse.

Si può, con l’approvazione della maggioranza delle popolazioni della Provincia o delle Province interessate e del Comune o dei Comuni interessati espressa mediante referendum e con legge della Repubblica, sentiti i Consigli regionali, consentire che Provincie e Comuni, che ne facciano richiesta, siano staccati da una Regione e aggregati ad un’altra.

A nostro parere non vi è un altro modo per poter giungere a Belluno Autonoma se non quello dell’aggregazione della provincia di Belluno alla regione Trentino Alto Adige, con le modalità previste dalla Costituzione italiana.

Quale sarà l’iter referendario?

Abbiamo già visto che la strada scelta per il nostro referendum è legata a quanto disposto al comma 2 dell’art. 132 della Costituzione Italiana che prevede la possibilità, da parte di una provincia, di essere staccata da una regione per essere aggregata ad un’altra.

La normativa di dettaglio che regola l’iter è contenuta in seno alla L. 25 maggio 1970, n. 352, che regola agli artt. 41 e seguenti, per l’appunto, le operazioni per l’esercizio del voto referendario.

Vi è tuttavia una condizione che risulta imprescindibile per dare avvio alla pratica referendaria così come descritta: è assolutamente necessaria la delibera del Consiglio Provinciale interessato al distacco, nella quale sia chiarita l’espressa volontà di essere staccati dalla regione Veneto per essere aggregati alla regione Trentino Alto Adige.

Successivamente l’elenco delle fasi attuative dovrà essere il seguente:

La richiesta di referendum deve essere quindi depositata presso la cancelleria della Corte di cassazione.
L’Ufficio centrale per il referendum, costituito presso la Corte di cassazione, accerta che la richiesta di referendum sia conforme alle norme dell’articolo 132 della Carta costituzionale e della legge.
L’ordinanza dell’Ufficio centrale che dichiara la legittimità della richiesta di referendum è immediatamente comunicata al Presidente della Repubblica e al Ministro per l’interno, nonché al delegato che ha provveduto al deposito.
Il referendum è indetto con decreto del Presidente della Repubblica, su deliberazione del Consiglio dei Ministri, entro tre mesi dalla comunicazione dell’ordinanza che dichiara la legittimità della richiesta, per una data di non oltre tre mesi da quella del decreto.
Il referendum è indetto nel territorio delle regioni della cui fusione si tratta, o nel territorio della regione dalla quale le province o i comuni intendono staccarsi per formare regione a sé stante.
La proposta sottoposta a referendum è dichiarata approvata, nel caso che il numero dei voti attribuiti alla risposta affermativa al quesito del referendum non sia inferiore alla maggioranza degli elettori iscritti nelle liste elettorali dei comuni nei quali è stato indetto il referendum, altrimenti è dichiarata respinta.
Nel caso di approvazione della proposta sottoposta a referendum, il Ministro per l’interno, entro 60 giorni dalla pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale, presenta al Parlamento il disegno di legge costituzionale o ordinaria di cui all’articolo 132 della Costituzione.
La promulgazione della legge ordinaria prevista dall’art. 132, secondo comma della Costituzione è espressa con la formula seguente:

«La Camera dei deputati e il Senato della Repubblica, a seguito del risultato favorevole al referendum indetto in data. . ., hanno approvato;
Il Presidente della Repubblica promulga la seguente legge:  …».

Quale sarà il quesito referendario?

Vogliamo qui affrontare la questione di come sarà formulato il quesito referendario.

Non potremmo essere noi a definire il testo del questito, che è determinato direttamente dalla normativa vigente e sarà così formulato:

Per quanto previsto dalla legge n. 352 del 25 maggio 1970, titolo III

“VOLETE CHE IL TERRITORIO DELLA PROVINCIA DI BELLUNO SIA SEPARATO DALLA REGIONE VENETO PER ENTRARE A FAR PARTE INTEGRANTE DELLA REGIONE TRENTINO ALTO ADIGE?”

Unica avvertenza: per tutti coloro che hanno ancora qualche dubbio sul senso di “appartenere” alla regione Veneto piuttosto che alla regione Trentino Alto Adige, si confrontino in fretta le pagine:

Che significato avrebbe aggregare la provincia di Belluno alla regione Trentino Alto Adige?
Per coloro che sono affezionati alla veneticità …

Sintesi delle ragioni del referendum provinciale per Belluno Autonoma

Perché il referendum è l’unica strada possibile per l’Autonomia della Provincia di Belluno.

La proposta di referendum non è rivolta contro qualcuno. Non siamo diventati nemici del Veneto, con cui avremo, sempre, rapporti di stretta amicizia e collaborazione. Questa proposta è diretta a trovare soluzione ai gravi problemi della montagna bellunese. Nulla di più, nulla di meno. Una scelta pratica, concreta, non ideologica e ostile. Il Veneto ha scelto, definitivamente, uno sviluppo urbano che emargina e distrugge le comunità delle periferie rurali e montane. E’ una scelta legittima e un fatto. Il guaio è che nel Veneto noi siamo una di queste comunità destinate a sparire. Bisogna reagire. Pacificamente, senza proclami e senza rabbia, con calma e con determinazione.

E’ l’unica possibilità per l’intera provincia di evitare la dissoluzione come entità autonoma. In provincia di Belluno ogni anno muoiono 800 bellunesi più di quelli che nascono. Il saldo naturale (nati meno morti) è negativo dal 1990. Non ci sono più le forze per ricambiare i 110 mila attivi (ne mancheranno circa 13-15 mila entro il 2020 e senza gente che lavora non si potrà mantenere l’attuale reddito procapite  di circa 30 mila €, con il patrimonio di circa 451 mila € per famiglia, né mantenere tutte le persone inattive che diventeranno di più degli attivi. Questa evoluzione demografica ha fatto crescere l’indice di vecchiaia a 182 e gli anziani in provincia sono 1/4 dei residenti. In alcuni paesi ci sono 4 anziani per ogni ragazzo con meno di 15 anni. Alcune comunità sono già sparite come tali e i paesi sono luoghi in cui non si vive ma si sopravvive, in attesa che tutti gli abitanti delle montagne scendano a valle e le loro proprietà diventino luoghi di speculazione economica senza freno.

Il passaggio ad una Regione interamente montana ci permetterebbe di produrre politiche economiche e sociali adeguate a territori montani e questo senza rinunciare alle nostre origini e al carattere veneto di una parte delle comunità bellunesi (altre comunità sono d’origini e caratteri diversi da quelli veneti). Per coloro che sono affezionati alla veneticità si ricordano tre cose:A. Le Venezie sono tre, il Trentino, il Veneto e il Friuli. I Trentini e i Friulani sono legati alla loro storia veneta quanto noi. Appartenere ad altra amministrazione non ha nulla a che vedere con i caratteri etnici e con stravolgimenti identitari.B. Di che identità parliamo? Pensatela come vi pare. Il fatto è che abbiamo bisogno di politiche attive adeguate e utili in montagna, pena lo spopolamento totale e definitivo dei due terzi della provincia. Preferite la nostalgia d’identità vere o fasulle o una vita vera e possibile delle comunità bellunesi? Volete essere mummie in un museo o vivere in un magnifico ambiente montano, dove si vive bene, meglio che in padania, se si creano le possibilità di fare quello che serve per viverci?C. L’identità la cerca solo chi l’ha perduta. L’identità la perdono le comunità deboli, in decadenza, che vivono con lo sguardo rivolto al passato, che preferiscono le nostalgie ai progetti vitali, che accettano supinamente l’estinzione e l’emarginazione, che preferiscono il calduccio della servitù alla fresca incertezza della libertà. I morti han bisogno del nome sulla lapide (la famosa identità), i vivi hanno solo il desiderio e la volontà di restare vivi. L’identità è determinata da ciò che le comunità fanno, da come costruiscono relazioni con gli altri, reagendo alle difficoltà. Le comunità che si lasciano morire senza reagire sono già morte. E l’identità con loro.

E’ la migliore tra le ipotesi di trasferimento amministrativo poiché la regione Trentino Alto Adige  non esiste come ente amministrativo accentrante, essa è un mero contenitore vuoto di due province autonome alle quali non viene “annessa” Belluno, che diventerebbe, invece, la terza Provincia Autonoma, necessariamente dotata di potere legislativo poiché nella regione Trentinop Alto Adige, questo potere è delegato alle Province. Nessuna subordinazione ma autonomia nella collaborazione.

Questa soluzione inserirebbe la provincia in un contesto di due legislazioni (di Trento e Bolzano) attente ai problemi della montagna e capaci di proporre strumenti legislativi e regolamentari differenti, con una notevole esperienza accumulata, alla quale potremmo  fare riferimento per acquisire competenze che altrimenti non avremmo a disposizione.

Le due Province Autonome si sono già dotate di Comunità comprensoriali (otto a Bolzano e  undici a Trento) ed hanno già compreso come, nelle realtà montane, gli enti amministrativi centrali sono strumenti per le diverse Comunità di valle, alle quali delegare molte competenze amministrative provinciali. Adottare lo stesso modello darebbe una reale autonomia alle Comunità di valle, indispensabile per poter produrre politiche territoriali adeguate.

ll modello dei comprensori, dotati d’ampie deleghe, è ciò che ci serve per  superare l’impotenza di amministrazioni comunali troppo piccole e quindi incapaci di produrre processi di reale autogoverno.

Un referendum provinciale dà forza sufficiente per dare una risposta, pacifica e praticabile al desiderio d’autonomia, già manifestato con referendum comunali a Lamon, Sovramonte, Cortina, Colle Santa Lucia, Livinallongo e Sappada, che da un lato non hanno portato all’esito sperato e che, in caso di distacco di questi Comuni, produrrebbe la dissoluzione amministrativa della Provincia.

Se condividete una sola di queste motivazioni, firmate e portate tutta la vostra parentela a firmare.

Se non vi bastano queste motivazioni, pazienza, potete non firmare.

Potrete sempre celebrare l’anniversario della scomparsa delle comunità Bellunesi e potrete, con gli altri sopravvissuti, diventare orgogliosi Trevisani del nord.

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Tutto ciò che il Movimento Referendario non è o non dovrebbe essere

Un movimento è un insieme di persone, con idee molto diverse tra loro, che convergono, per svariati motivi, “intorno” ad un’idea che, sia pure in modo confuso, condividono. Non è possibile sapere a priori che tipo di connotati avrà in futuro un movimento perché, per loro natura questi sono largamente imprevedibili. Anche nel caso del gruppo promotore del referendum provinciale, per chiedere il trasferimento amministrativo della Provincia di Belluno alla Regione Trentino Alto Adige, ha ora queste caratteristiche. Quello che io mi auguro, ciò che spero è che il movimento si configuri, si caratterizzi per i seguenti elementi.

Non è un movimento reazionario, nostalgico, che vorrebbe ritornare al passato. Non amiamo le piccole patrie, le ideologie del piccolo villaggio autonomo ed isolato dal mondo che spaventa. Non vogliamo riconoscerci nel folklore locale o perché indossa costumi o parla un dialetto, non ci sentiamo speciali e superiori agli altri cittadini di altri paesi e nazioni. Siamo, invece radicati e affezionati alla nostra storia, non ci vergognamo di quel che siamo, il movimento è aperto al mondo, accetta le sfide del presente, sa che l’identità è un elemento che si costruisce e trasforma giorno dopo giorno operando in comunità (insieme agli altri..) per affrontare le sfide del presente e non una patacca che serve a mascherare le proprie debolezze ed incapacità. Sa, però, che per affrontare tali sfide è necessario consolidare le Comunità, dotarle di strumenti per la gestione politica degli eventi che le coinvolgono, permettere loro di usare le risorse che hanno secondo l’interesse e le scelte loro e non per fare interessi altrui. La dissoluzione in corso delle comunità bellunesi non è modernità, non è progresso (a meno che non si consideri una metastasi, che pure è progressiva come un fatto positivo). Agire per impedirla significa garantirsi un futuro.

Non è un movimento secessionista. Il secessionismo rivendica un’autonomia totale e un ordinamento indipendente. La Provincia di Belluno non ne ha bisogno né sarebbe in grado di fare da sé. Quello di cui ha bisogno è di rimanere inserita saldamente nell’ordinamento dello stato Italiano e in un ordinamento regionale attento alle dinamiche evolutive montane. La regione Veneto non è in grado di produrre legislazioni regionali adeguate e idonee al raggiungimento di questo scopo. Il Veneto ha scelto un modello di sviluppo urbano, agricolo, turistico, della mobilità, della distribuzione commerciale, ecc. che condanna le comunita che vivono in montagna all’estinzione. La scelta operata dalle elites politiche regionali è perfettamente comprensibile e ragionevole, il cuore pulsante e produttivo della Regione è l’asse Portoguraro-Verona caratterizzato da una distribuzione di attività produttive, dalla concentrazione urbanistica, e commerciale, da una mobilità mista spinta e crescente, da un’agricoltura industriale, da un turismo di massa (Vedi Garda, Verona e Venezia).Non si tratta di andare via dal Veneto perché i veneti (anche una parte dei bellunesi sono veneti) sono malvagi e ostili ma perché la montagna bellunese ha bisogno di altri strumenti legislativi per assicurarsi la sopravvivenza e un modello sociale locale sostenibile. A noi non servono le concentrazioni industriali, commerciali, di produzione energetica e dei servizi, ci servono le reti efficienti e flessibili. Non possiamo praticare l’agricoltura industriale ma un’agricoltura di mantenimento territoriale e con produzioni specializzate. Non possiamo concentrare la distribuzione commerciale in super-iper-mega mercati ma abbiamo bisogno di una distribuzione spalmata sul territorio. Non possiamo considerare il territorio come un luogo di mero insediamento perché in gran parte inadatto e una risorsa essenziale per l’attività turistica. Potremmo proseguire. Il trasferimento amministrativo comporta la recisione dei legami di stretta collaborazione con il Veneto in ambito economico? Solo uno sciocco potrebbe pensare questo, si pensi solo alla questione dell’acqua della Piave. Continuerà a scorrere verso Treviso e Venezia. Continuerà ad essere utilizzata dall’agricoltura veneta però a condizioni contrattate e non imposte.Lo stretto intreccio delle nostre imprese con quelle venete continuerà indisturbato ma le nostre imprese non saranno punite da costi che impediscono loro di essere concorrenziali sul mercato nazionale e locale. Non c’è nessuna pulsione secessionista, nessun desiderio di divisione ostile, nessun rancore. Dal Veneto abbiamo ricevuto molto e continueremo a ricevere molto. La globalizzazione ha frantumato i criteri di definizione delle appartenenze nazionali e locali nate dalla storia del novecento. Oggi si affronta meglio il mercato globale con comunità coese e forti, determinate e consapevoli, la protezione delle appartenenze regionali e nazionali non danno più vantaggio. Si deve essere, però, consapevoli che molti dei problemi che abbiamo possono essere risolti solo collaborando gli uni con gli altri, cedendo sovranità, accettando accordi. Non ci dovrebbe essere alcuna tentazione isolazionista e localista nel movimento referendario. Concludendo non siamo secessionisti, cerchiamo solo la collocazione amministrativa più adeguata al fine di affrontare e risolvere meglio i nostri problemi.
Non siamo un movimento che rivendica o esige qualcosa dagli altri o che agita problemi. Vorremmo essere un movimento che propone soluzioni. Intorno alla questione autonomia sono state fatte speculazioni politiche, molta propaganda politica ed infinita demagogia. L’autonomia non è una soluzione di tutti i problemi, non è un talismano taumaturgico, non ci rende migliori di quel che siamo. E’ solo uno strumento amministrativo che ci permetterà di intervenire sulle dinamiche evolutive delle nostre comunità. Potere che ora abbiamo solo in modo parziale ed insufficiente. Non lo chiediamo in odio al Veneto o perché riteniamo i modelli di Trento e Bolzano i migliori possibili. Lo chiediamo per avere una possibilità di sopravvivenza, per avere la possibilità di provare a governare i processi nei quali ora siamo solo oggetti di scelte altrui. Non siamo nemmeno certi di saperlo fare bene. Forse si forse no, ma se non c’è data l’opportunità di provare non lo sapremo mai.

Non siamo un movimento che desidera ottenere gli stessi privilegi economici delle due Province autonome di Trento e Bolzano. Ci basta molto meno. Siamo consapevoli che la situazione delle due province deriva da accordi internazionali del tutto eccezionali e non ripetibili. Sappiamo che la nostra proposta produrrà notevoli problemi agli equilibri interni tra le due province autonome, che solleva formidabili problemi di equilibrio nelle quote etniche (che non ci interessano), siamo anche certi che la nostra proposta non sarà gradita. Siamo consapevoli dei gravi problemi legislativi in termini di riforma costituzionale e di quanto sarà complicato affrontarli e risolverli in modo positivo per i nostri interessi. Sappiamo anche che siamo debolissimi per poter ottenere il risultato che ci serve. Ma la risposta a queste giuste perplessità è: che dobbiamo fare? Lasciarci morire per non disturbare e infastidire il prossimo? Le due province autonome hanno un’autonomia totale. A noi non serve, ci basta un’autonomia modellata sulle nostre esigenze, con la disponibilità di risorse inferiori di quelle concesse a Trento e Bolzano. Nulla impedisce alla regione Trentino di ospitare una terza provincia autonoma con un’autonomia diversa. Si comprenda che il modello assistenziale presente a Tn e Bz non ci interessa perché conosciamo bene i limiti che presenta e soprattutto conosciamo bene i caratteri delle comunità bellunesi. Ci serve, invece, l’autonomia legislativa e regolamentare, nel rispetto delle leggi dello Stato e nei limiti delle competenze definite dall’artt. 117-118-119 della Costituzione.

Non siamo un movimento che chiede l’autonomia per rifugiarsi entro un piccolo mondo separato. Ad esempio sappiamo bene che gli immigrati ci sono molto utili e non abbiamo nulla contro la loro presenza, non temiamo di perdere identità aprendoci al mondo, sappiamo bene che la struttura produttiva provinciale esporta prodotti per 2,5 miliardi di € (pari a metà del nostro PIL) e quindi qualsiasi chiusura protezionistica è, prima d’ogni altra cosa, stupida e autolesionistica. Sappiamo anche che senza 10-15 mila attivi immigrati la nostra struttura produttiva (di ricchezza per tutti) non è in grado di funzionare e quindi queste persone devono essere accolte, aiutate ad inserirsi, integrate e trattate come cittadini dotati di diritti e di doveri. Sappiamo anche che una comunità sopravvive se innova, se inventa, se sperimenta nuove soluzioni a vecchi problemi. Il fatto è che ora non possiamo prendere alcuna decisione in merito a questi fattori di consolidamento e sviluppo comunitari. Che perdiamo residenti, quote di mercato, intelligenze e competenze e, con gli strumenti che abbiamo, non possiamo fare altro che subire questo continuo impoverimento. L’autonomia ci serve per fare questo, non abbiamo bisogno dell’autonomia naftalina per conservarci, per proteggerci, per isolarci, ma per vivere, per innovare, per investire, per creare un futuro alle nostre comunità.

Non siamo un movimento che aspira a ottenere una rendita. I bellunesi, senza autonomia, hanno ottenuto un reddito procapite superiore a quello dei trentini e di poco inferiore a quello dei sud tirolesi. Sappiamo cavarcela senza sussidi, senza assistenza, senza privilegi. Solo che oggi sono messe in discussione le basi della nostra sopravvivenza come comunità e, per quanto bravi siamo, se perdiamo mille attivi ogni anno, se vendiamo terre ed edifici per una pipa di tabacco, se non produciamo nuove imprese, se non abbiamo risorse adeguate per fare investimenti produttivi, a tutela del territorio, per la sua manutenzione e valorizzazione, se non riusciamo a reggere la concorrenza turistica, se continuiamo a chiudere alberghi, se permettiamo allo Stato di vendere le nostre montagne ad un prezzo irrisorio, non avremo futuro. Il movimento referendario desidera che i cittadini delle diverse comunità Bellunesi possano ragionare su questi temi ed esige che sia fatta una consultazione, che ci sia la possibilità di praticare quell’autonomia che tutti sbandierano e che quasi nessuno pratica. Cominciamo da questo referendum, facciamo sentire le nostre ragioni pur rispettando quelle altrui.

Per ultima cosa ci piacerebbe che coloro che non condividono le nostre opinioni, esprimessero il loro dissenso su quello che siamo, su quello che pensiamo e su quello che facciamo. Le diverse opinioni non ci spaventano. Quello che non serve proprio a niente è criticarci per ciò che non siamo. La pigrizia intellettuale e il can can intorno ai temi dell’autonomia induce molti a pensare che questo movimento altro non sia che una variante del secessionismo leghista, dell’indipendentismo, della rabbia apolitica contro istituzioni e leggi. Bene. Siamo un’altra cosa. Si può benissimo contrastare la nostra iniziativa ma valutateci per quel che siamo e per quel che facciamo. Se potete, non scaricateci addosso i vostri pregiudizi. Grazie.

Nessuno può dire oggi cosa diventerà questo movimento referendario. Può essere che approdi a esiti totalmente diversi da quelli che i fondatori s’augurano. E’ possibile o, almeno, non può essere escluso. Tuttavia senza rischio non c’è alcuna avventura umana che sia degna d’essere vissuta. Per questo è necessario avere fiducia nelle persone che si spendono in questa iniziativa, come è necessario avere fiducia in tutti i cittadini delle comunità bellunesi. Essi possono riflettere, farsi una loro opinione e decidere liberamente. Da parte nostra non c’è alcuna presunzione. Sappiamo che le nostre proposte non saranno facilmente realizzabili, ciò nonostante ci proviamo con tenacia e con ostinazione. Se poi i bellunesi preferiscono non cambiare e adattarsi ad un lento declino prenderemo atto di questa decisione della maggioranza. Di sicuro non ci farà piacere ma chi propone un’iniziativa politica, per quanto legittima e giusta essa sia, sa di dover mettere nel conto anche l’ipotesi di una sconfitta. Per ora, per noi, ogni giorno passato senza agire, senza reagire, nella rassegnazione e nell’ignavia è già una sconfitta e un’umiliazione sufficienti per non temere le sconfitte che, eventualmente, ci riserva il futuro.

Diego Cason

Per i Bellunesi che non hanno perso la propria identità

Nella pagina “Per coloro che sono affezionati alla veneticità …” abbiamo evidenziato un concetto di grande importanza:

L’identità la cerca solo chi l’ha perduta. L’identità la perdono le comunità deboli, in decadenza, che vivono con lo sguardo rivolto al passato, che preferiscono le nostalgie ai progetti vitali, che accettano supinamente l’estinzione e l’emarginazione, che preferiscono il calduccio della servitù alla fresca incertezza della libertà. I morti han bisogno del nome sulla lapide (la famosa identità), i vivi hanno solo il desiderio e la volontà di restare vivi. L’identità è determinata da ciò che le comunità fanno, da come costruiscono relazioni con gli altri, reagendo alle difficoltà. Le comunità che si lasciano morire senza reagire sono già morte. E l’identità con loro.

Ora, siamo oltremodo coscienti che la nostra provincia è un magnifico crogiolo di  identità che vanno ben oltre, per importanza e profondità, la supposta identità veneta che pur taluni, epidermicamente, possono pensare di avere. Facciamo appello a queste nostre profonde identità, sovente sopite ma mai perdute, affinché l’idea di una Belluno Autonoma si radichi nel profondo delle nostre coscienze e sia di sostegno alla rivendicazione di quello che appare, sempre più, come un diritto assolutamente vitale per le Nostre Genti.

Tanto più se teniamo conto che sono circa quaranta anni che la Regione Veneto legifera dimostrandosi incapace di produrre politiche agricole, commerciali, industriali, scolastiche e turistiche su misura della montagna. Non hanno mai inteso la necessità d’interventi diversi per ambienti diversi dalla padania. E non l’intenderanno nemmeno ora, visto il testo delle proposte di modifica dello Statuto regionale, nel quale non si affida ai montanari alcuna decisione autonoma.

Per coloro che sono affezionati alla veneticità…

Per coloro che sono affezionati alla veneticità si ricordano tre cose:

Le Venezie sono tre, il Trentino, il Veneto e il Friuli. I Trentini e i Friulani sono legati alla loro storia veneta quanto noi. Appartenere ad altra amministrazione non ha nulla a che vedere con i caratteri etnici e con stravolgimenti identitari.
Di che identità parliamo? Pensatela come vi pare. Il fatto è che abbiamo bisogno di politiche attive adeguate e utili in montagna, pena lo spopolamento totale e definitivo dei due terzi della provincia. Preferite la nostalgia d’identità vere o fasulle o una vita vera e possibile delle comunità bellunesi? Volete essere mummie in un museo o vivere in un magnifico ambiente montano, dove si vive bene, meglio che in padania, se si creano le possibilità di fare quello che serve per viverci?
L’identità la cerca solo chi l’ha perduta. L’identità la perdono le comunità deboli, in decadenza, che vivono con lo sguardo rivolto al passato, che preferiscono le nostalgie ai progetti vitali, che accettano supinamente l’estinzione e l’emarginazione, che preferiscono il calduccio della servitù alla fresca incertezza della libertà. I morti han bisogno del nome sulla lapide (la famosa identità), i vivi hanno solo il desiderio e la volontà di restare vivi. L’identità è determinata da ciò che le comunità fanno, da come costruiscono relazioni con gli altri, reagendo alle difficoltà. Le comunità che si lasciano morire senza reagire sono già morte. E l’identità con loro.

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